Il Popolo della Libertà nasce ufficialmente con il Congresso costitutivo del 27 marzo 2009[1] attraverso la fusione di: Forza Italia (compresi Circoli della Libertà, Circoli del Buongoverno, Decidere!) e Alleanza Nazionale in primis, più Nuovo Psi, Popolari liberali, Azione sociale, Destra libertaria, Cristiano popolari, Riformatori liberali e Italiani nel Mondo. Aderiscono successivamente: Per la Liguria e Movimento per l’Italia. Ne sono fondatori e/o sostenitori, ma mantengono la loro autonomia: Democrazia Cristiana per le Autonomie, Partito Pensionati e Partito Repubblicano Italiano.
Si tratta di un numero notevole di partiti e movimenti che si uniscono grazie alla ‘visione’, o meglio grazie alla ‘lucida follia’ di un leader[2] che il 18 novembre 2007, nell’exploit della rivoluzione del predellino, annuncia la formazione del nuovo partito e lo realizza nel corso di due anni.
Lo Statuto approvato il 29 marzo 2009 è cucito sulla forte personalità del suo fondatore. Descrive infatti una struttura gerarchica e verticale, incentrata sulla figura del Presidente, il quale viene eletto dal Congresso anche per alzata di mano (art.15 dello Statuto), e dispone di pieni poteri[3]. Il leader, oltre alla definizione delle linee politiche e programmatiche, guida l’Ufficio di presidenza – vera e propria cabina di regia del Pdl – e convoca la Direzione e il Consiglio nazionale.
Dell’Ufficio di presidenza fanno parte i capigruppo e i vicecapigruppo di Camera e Senato, un europarlamentare e 23 membri eletti dal congresso su proposta del presidente, il quale all’interno di questo gruppo individua i tre coordinatori nazionali, ad oggi Sandro Bondi, Ignazio La Russa e Denis Verdini. A loro è affidata l’organizzazione nazionale e periferica, oltre all’attività della struttura centrale e di quelle territoriali. Spetta ai tre coordinatori dare attuazione alle deliberazioni del presidente del partito e dell’Ufficio di presidenza ai quali sottopongono anche le nomine degli organi dirigenti e le candidature. Tra gli altri compiti, sono previsti “in via esclusiva” il potere di presentare liste e candidature a livello nazionale e locale.
La Direzione nazionale è composta da 120 membri eletti dal congresso e ne fanno parte, di diritto, coloro che siedono nell’Ufficio di presidenza. Tra i membri della Direzione e del Consiglio sono poi nominati dal Presidente su proposta del comitato di coordinamento i responsabili di settore (Organizzazione, Enti locali, Settore Elettorale, Adesioni, Pari Opportunità, Internet e nuove tecnologie, Comunicazione, Formazione, Iniziative movimentiste, Italiani nel mondo, Difensori del voto e rappresentanti di lista, Portavoce, Responsabile giovani (scelto autonomamente secondo le modalità regolamentari dell’Organizzazione giovanile di cui all’art. 49). Il Comitato di coordinamento costituisce, inoltre, 14 Consulte che riprendono le aree tematiche delle 14 Commissioni permanenti della Camera dei Deputati.
Per quanto riguarda la struttura di base vengono riconosciute due tipologie di iscritti (elemento di rottura con gli schemi del passato): gli “aderenti”[4], ossia gli aventi solo il diritto di elettorato attivo (possono quindi votare per i delegati congressuali nell’ambito del Comune e della Provincia di residenza, e partecipare alle consultazioni e alle iniziative di democrazia diretta del partito) e gli “associati”, ovvero “i cittadini e le cittadine italiane, anche già aderenti” che, oltre a partecipare a tutte le attività del partito, esercitano anche il diritto di elettorato passivo e possono essere designati o nominati a cariche interne.
Lo Statuto del Pdl non è federale, solo le organizzazioni locali e periferiche rette da un organo elettivo hanno autonomia amministrativa e negoziale[5]. Quindi non vi è nessuna autonomia politica, né statuti regionali.
La leadership carismatica e coagulante del leader Silvio Berlusconi ha permesso, fino ad ora, l’attuazione della fusione tra Fi e An senza ostacoli e senza particolari intoppi. La struttura verticale del partito ha permesso fasi di trasformazione organizzativa più lineari e condivise, niente a che vedere con le forti spinte correntizie e policentriche del Partito Democratico[6].
Restano, però, alcune contraddizioni latenti dal punto di vista delle differenze di cultura politica e organizzativa, a cui si richiamano le due anime costituenti del Pdl, quella forzista e quella di An. È necessario sottolineare che l’organizzazione pidiellina rispecchia quasi totalmente quella verticistica e patrimonialista[7] di Forza Italia. Nel partito berlusconiano, infatti, la maggior parte degli organi collegiali era cooptata dal presidente, il quale era incoronato dall’assemblea e nominava i suoi fedeli in tutti gli organi, anche in quelli locali (i coordinatori regionali non erano eletti, bensì indicati dal presidente). Prevale, quindi, il modello organizzativo forzista su quello di An, che era sì verticale, ma non connotato da una così forte centralità del leader.
Un vero e proprio monopolio che mette fuori gioco l’anima finiana del Pdl, la quale – pur se corrosa dalla fascinazione berlusconiana[8] – si costituisce in corrente di minoranza un anno dopo la costituzione del partito. Una strategia di decentramento del potere che implicherebbe di fatto una metamorfosi organizzativa rispetto al partito – come appare ora – monocefalo e centralizzato.
E se le strategie non sono sostenute dai numeri? E se Fini ha fatto i conti senza l’oste?
I toni forti della Direzione Nazionale del Pdl e le 11 voci fuori dal coro, non lasciano intravedere nessun cambiamento, nessuna evoluzione organizzativa.
Le voci fuori dal coro vengono schiacciate. Le metastasi eliminate.
La fisiologia dell’organismo verticistico ha un buon apparato immunitario, per ora.
Marina Ripoli
[1] I delegati al congresso nazionale Pdl erano 6.000 (1.800 di An, 700 dei partiti più piccoli e 3.500 di FI).